Iniziative Psicologia

Nella pandemia, chi è l’altro per me? – intervista alla prof.ssa Elena Marta

A Maggio, durante il lockdown, abbiamo intervistato la professoressa Elena Marta (professoressa ordinaria di psicologia sociale e di psicologia di comunità) per confrontarci con lei su alcune domande che la pandemia ha fatto emergere in noi studenti. Grazie alla sua esperienza come professionista delle dinamiche sociali, il dialogo emerso ha offerto diversi spunti di riflessione interessanti che ci risultano essere particolarmente pertinenti con la situazione attuale.

Prof.ssa Elena Marta

Ci interessava approfondire il rapporto tra comunità e singolo individuo in questo periodo di pandemia. Ci siamo accorti di alcuni fenomeni come i canti sui balconi, l’esaltazione del personale medico e infermieristico, episodi di collaborazione inaspettata con il fine di raggiungere il bene comune. Questi eventi hanno provocato in noi alcune domande: Ora che ci stiamo allontanando dalla fase acuta di emergenza, che cosa rimane di questo “fare comunitario”, di motti come “insieme ce la faremo” che incitano a una dimensione comunitaria e collettiva che oramai sembrava persa da tempo? E, inoltre, come tutto questo può stare insieme ad un’insita paura dell’altro? La pandemia ha fatto sì che l’altro sia una ricchezza o un pericolo per me?

La situazione è sicuramente più complessa di quanto gli slogan non riassumano, è piena di istanze anche molto diverse tra loro. Se da una parte emergono  un inedito senso di responsabilità e una  evidente  solidarietà – che sono da valorizzare e sostenere –  dall’altra parte-in una situazione di scarsità di risorse e di riorganizzazione in cui le possibilità delle persone sono poche e vincolate – emerge l’aspetto della sorveglianza e del controllo dell’altro come possibile “untore”, pericolo, nemico. E’ interessante comprendere quanto il comportamento nei confronti dell’Altro assuma la forma di auto-sorveglianza e autocontrollo all’insegna della responsabilità collettiva o quanto invece diventi una forma di sorveglianza e controllo quasi, potremmo dire, persecutori, sulla vita dell’altro. In quest’ultimo caso scivoliamo nel “giudizio” nei confronti dell’altro, distinguendo i “buoni” dai “cattivi”, i “giusti” dai “riprovevoli” e creando una situazione potenzialmente di rancore e aggressività, con il rischio che diventi uno scontro all’insegna del  “mors tua vita mea”.

Su questo primo elemento se ne innesta un altro, ovvero la riflessione sulla morte. Prima di questa pandemia, dal punto di vista culturale, non avevamo mai parlato così tanto della morte. Parlare della morte vuol dire confrontarsi con il limite, con la caducità, con qualcosa che non è governabile, che non scegliamo noi e che provoca paura. Da qui il tentativo di esorcizzarla attraverso i flashmob o attraverso tutte queste attività, che sicuramente sottendono significati  molto ambivalenti.

È quindi necessario confrontarsi con la complessità e l’ambivalenza che questa pandemia ha provocato: posso essere in salvo solo se l’altro è responsabile, però l’altro è contemporaneamente la fonte della mia malattia. Allora l’altro chi è?

Una consapevolezza di questo periodo è che le persone sole di fronte alla paura della morte, all’ambivalenza, alle frustrazioni di stare davanti all’altro, hanno fatto fatica a reggere la situazione, la resilienza individuale si è sciolta come neve al sole, laddove non era alimentata da un contesto sociale e comunitario  che consentiva di ridare un senso collettivo a quanto successo e offriva un supporto di qualsiasi natura.

Cosa intende per “senso collettivo”?

Il senso collettivo fa riferimento ad  una rielaborazione comunitaria. Una rielaborazione che implica empatia, implica che ognuno si metta nei panni dell’altro: solo così si può cogliere quello che l’altro vive e forse capire che la sua paura è anche la mia. Ma una volta che ci siamo resi conto di questa paura, che cosa ce ne facciamo? La usiamo per metterci l’uno contro l’altro oppure per dare un senso a quello che sta accadendo e operare insieme?

Dobbiamo provare in qualche modo a dare significato e a comprendere quello che è successo, evitando che il Covid saturi la mente, perché a volte sembra che esista solo questo. È necessario, invece, provare a dare un senso a quello che è accaduto e che la pandemia ha portato, non il contrario.

Mi torna in mente in questo momento il libro “My neighbor, my enemy”[1] sullo scontro tra serbi e croati, che racconta di come il tuo vicino, il tuo compagno di giochi dell’infanzia, nel momento del conflitto, nel caso fosse dell’altro gruppo etnico, diventava immediatamente il tuo nemico. Un evento del genere scardina le sicurezze. Per lavorare su questo aspetto è necessario dargli un senso e ricostruire dei legami comunitari che vadano a compensare queste insicurezze, che ci aiutino a capire che quell’uno che mi ha tradito non può farmi perdere la fiducia negli esseri umani, la speranza nell’umano.

È possibile rielaborare da soli, senza guardare ad un altro, ad una guida?

Mi sembra difficile perché per rielaborare è necessario passare da un piano emozionale ad uno riflessivo, e viceversa, e non è facile gestire questo processo da soli. Alcuni colleghi ad esempio hanno lavorato sulla dimensione gruppale, offrendo alle persone un luogo dove potessero liberamente e reciprocamente dirsi i loro pensieri, condividere le paure e le piccole gioie o i momenti di sollievo. Per rielaborare infatti non basta prendere le persone e dirgli “rielaboriamo”, ma serve trovare congegni che facilitino questo processo.

Per esempio  alcuni colleghi per favorire questa rielaborazione in situazioni critiche hanno utilizzato strumenti quali il “teatro sociale o il teatro di comunità[2], lavorando così  anche sulla dimensione del corpo nello spazio. Infatti, sappiamo quanto la pandemia ha messo a dura prova la corporeità  e la gestione dello spazio,  quanto queste siano state sacrificate (per il rischio di contagio) o acuite (per le situazioni familiari di convivenza obbligata).

Oltre a ciò, bisognerà coinvolgere figure che in un qualche modo possano consentire una lettura più realistica della situazione, offrendo anche il loro punto di vista.

Questa rielaborazione è necessaria per non cadere in letture polarizzate ed estreme. Ad esempio, prendiamo il caso dei medici e degli infermieri, da una parte sono stati esaltati perché in prima linea, ma dall’altra si sono visti arrivare le prime denunce, attraverso una visione polarizzata per la quale o sono i “salvatori della patria” o  gli “incapaci”. Il problema è che “il salvatore” è irraggiungibile, “deve” essere “perfetto” e quindi il suo errore non è ammesso. Per questo, è necessario un lavoro di accompagnamento al senso delle cose, alla riflessività, per arrivare a dare letture più equilibrate, né depresse né maniacali, e per aiutare a regolare di nuovo le distanze e le relazioni.

Come affrontare la situazione post-quarantena senza dimenticare quanto successo nei mesi passati?

Se le persone non vengono aiutate a rielaborare ciò che è accaduto, qualora si riproponesse una situazione analoga, non avrebbero degli appigli, dei supporti, farebbero fatica a risollevarsi e quindi sarebbe l’ennesima batosta. Rielaborare non vuol dire “immunizzarsi” in termini psicologici, ma avere un aiuto per affrontare meglio la situazione.

Per fare ciò non si può aspettare la ripartenza, come se ci fosse un “pre” e un “post”, in cui la fase in mezzo è sospesa, ma dobbiamo incominciare proprio in questo momento a interrogarci su come immettere contesti e luoghi di riflessione. Infatti, se la ripartenza è solo sul piano emozionale, poi risalire la china diventa complicato.

Inoltre, non si può far finta che tornerà tutto come prima, che torneremo a fare le cose esattamente come le facevamo prima. Infatti, il problema non è riadattarsi in un contesto cambiato, ma ripensare creativamente al presente, utilizzando delle piste di senso che offrano visioni creative diverse ma realistiche, che arrivino al cuore di quello che le persone hanno vissuto e possano aiutarle ad andare al di là della sola dimensione emozionale.

Per esempio, in un’indagine sui giovani, molti di loro hanno detto che questa esperienza li ha fatti riflettere sul senso della vita, li ha aiutati a cambiare le priorità… e dunque? Quali sono queste priorità della vita che sono cambiate? In che senso è cambiato il senso della vita?

Inoltre, la rielaborazione ci permette di fare memoria. Infatti, come dicono tutte le teorie sulla persuasione, l’essere umano è facile a dimenticare. Altri eventi ce l’hanno insegnato, con immagini molto simili a queste di oggi, ad esempio l’influenza spagnola del 1929: ospedali da campo costruiti in pochi giorni con la collaborazione di tutti, letti, bare, una situazione molto simile ad adesso… ma non vi è stata una lettura che consentisse di cogliere le variabili significative, per permettere alle persone di dare un senso a quanto accaduto e di fare memoria.


Arrivati a questo punto, abbiamo colto il valore di una rielaborazione collettiva. Ci sembra però che l’attenzione generale sia stata rivolta esclusivamente alla salute, all’economia, al lavoro – anche giustamente, ignorando l’impatto psicologico. Cosa ne pensa a riguardo?

Certamente non è facile in questo momento, poiché chi ha una grossa responsabilità è chiamato a guardare principalmente all’economia, alla salute, al lavoro. Ma il punto non è neanche che si guardi troppo all’economia, la stessa economia infatti si può fare in tanti modi. È possibile fare un’economia che fa profitto senza venire meno a certi valori: della persona, della comunità, dell’autorealizzazione. Certamente c’è un’urgenza che tende a mettere un po’ in cantina l’utilizzo di categorie culturali di senso. Ad esempio, al posto di fare svariate trasmissioni sui dati epidemiologici, in cui ognuno ripete la stessa cosa, o peggio ancora vengono date informazioni discordanti e contraddittorie, sarebbe più utile proporre programmi che aiutino le persone a riflettere su quali siano le priorità della vita e sulle opportunità che questo momento ha offerto, proponendo delle riflessioni culturali serie. Non è solo una visione sciocca e superficiale affermare che questo periodo ha prodotto delle opportunità, è vero! Ma è necessario chiedersi che sviluppo avrà tutto questo, quanto sarà sostenibile.

Quindi, rielaborare è definibile come una possibilità di trovare un senso dentro il limite stesso? E il limite, che può essere individuale, sociale o collettivo, potrebbe essere anche quello di non essere stati in grado di far fronte alla pandemia stessa, di non essere stati pronti? Ci sembra che a tratti la società sia andata in cerca di un capro espiatorio da incolpare, ma in fondo questa circostanza ci ha messo davanti a una situazione che è al di fuori delle capacità umane e ha fatto emergere chiaramente il nostro limite.

Certo. È necessario accettare la propria fragilità, il fatto che siamo limitati. Accettare l’errore. Noi siamo immersi in contesti iper-performanti, che ci portano a pensare che non solo non puoi accettarlo, anzi non puoi neanche parlare del limite. Come se questo non fosse di valore! Fare i conti con i limiti, è tipico dell’adulto e  ci consente di ripartire con consapevolezza dando un senso. Ci consente di ripartire contenendo le ansie, allontanando appunto i deliri di onnipotenza, ma anche gli aspetti più depressivi che possono nascere dal sentirsi assolutamente incapaci.

In questa situazione, è centrale il tema della morte, della fragilità, della caducità, del limite, che ci consente di riflettere di nuovo sulla vita e sull’errore, e questa è un’opportunità! Però bisogna coglierla. Insomma, sbagliare non è mai piacevole, soprattutto in una società in cui non è consentito farlo. Tollerare e accettare lo sbaglio, è un processo di crescita, o meglio, consente un salto di crescita notevole.


[1]My Neighbor, My Enemy: Justice and Community in the Aftermath of Mass Atrocity (Eric StoverHarvey M. Weinstein)

[2] Il teatro sociale può essere definito come «formazione e ricerca di benessere psicofisico delle singole persone attraverso la costituzione di compagnie e di gruppi produttori di pratiche performative, espressive e relazionali, capaci di creare riti e miti, spazi, tempi, corpi, indipendenti e concorrenti del sistema» (Bernardi, 2004). Il teatro di comunità può esser definito «come processo di creazione comunitaria che attraverso una molteplicità di azioni possibili […] coinvolge cittadini, operatori, artisti, abitanti, attori istituzionali, sociali ed economici nella costruzione di forme di autorappresentazione e/o di ritualità condivise su condizioni e temi che sono all’origine del passato e del futuro di una comunità esistente o possibile» (Rossi Ghiglione, 2011, pag. 231); è un modo di rielaborare vissuti della comunità,   «caratterizzato da unità, coesione e integrazione sociale, connotato da un agire volto al raggiungimento di finalità condivise, con forti legami sociali» (De Piccoli, 2005).

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